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Il lavoro di Laura Grasso nelle Carceri


Una volta messa a punto la tecnica, L. Grasso - motivata dal riverbero positivo che la pratica di questo tipo di scrittura aveva avuto sulla sua vita personale, oltre che dai sorprendenti risultati artistici- ha iniziato a saggiare l’ipotesi di trasmettere la sua esperienza. Il lavoro di diffusione ha esordito con una serie di conferenze in cui la scrittrice raccontava la sua scoperta e invitava i presenti a intraprendere il medesimo percorso o almeno a fare dei tentativi. Col passare del tempo L. Grasso è infine riuscita a mettere a punto un metodo di insegnamento della tecnica per persone singoli e per gruppi.

Per motivi contingenti la scrittrice ha poi avuto l’opportunità di sperimentare il suo programma con i detenuti del carcere di Porto Azzurro all'Isola d’Elba. Il progetto, concentrato in tre giorni di lavoro, riscosse un inequivocabile successo: i detenuti erano entusiasti e hanno manifestato l’esplicita richiesta di un maggior numero di incontri. Tutti fecero l’esercizio di scrittura secondo le istruzioni di L. Grasso; le composizioni si presentavano talvolta con strutture molto elementari (liste di parole, anche una sola parola), talvolta in forma più elaborate. In entrambi i casi il risultato era sempre un testo che raccontava intimamente la condizione profonda di chi l’aveva scritto; d’altro canto, i detenuti riferivano di sentirsi meglio dopo aver svolto il compito e che l’esperimento di fare Silenzio, benché molto difficile per tutti, aveva prodotto degli effetti interessanti.

Dopo l’esperimento di Porto Azzurro il corso di Scrittura Trasduzionale costruito su misura per i detenuti, ha ufficialmente preso forma. L’esperienza si è potuta quindi ripetere nel carcere UTA di Cagliari e nella Casa Circondariale di Bicocca a Catania.

Al Regina Coeli di Roma invece, la scrittrice ha potuto effettuare un percorso prolungato e continuativo. Ad oggi sono 6 mesi che L. Grasso incontra i detenuti una volta alla settimana. A coronamento del lungo e straordinario lavoro che ha visto protagonisti i detenuti di Roma, il Regina Coeli ha patrocinato la pubblicazione di un libro “Scritture dal Silenzio” con le scritture più belle che fino a questo momento sono state composte dai ragazzi e da L. Grasso stessa durante i loro incontri. Così scrive la Scrittrice nell’introduzione del libro: “ Abbiamo sperimentato come la S.T. possa essere un percorso interiore verso orizzonti sconosciuti; un’opportunità di aprire spazi di libertà conoscitiva ed espressiva.

Abbiamo capito che “le parole creano mondi”, che hanno il potere di incidere dentro e fuori di noi e di cambiare la qualità della nostra vita. Abbiamo scoperto che le parole che scaturiscono dalla S.T., sono parole speciali perché provengono da quella parte di noi che è pura, autentica e saggia. E’ quella parte di noi che tutto sa, a cui non abbiamo nulla da insegnare perché è come un “pozzo”, collegato ad un “pozzo più grande” che tutti ci contiene, dove il sapere viaggia pervadendoci. Abbiamo capito che la condizione necessaria per accedere a questo pozzo è creare il Silenzio; cimentandoci a tal fine con diverse tecniche, abbiamo imparato a riconoscere le parole ”rumorose” da quelle “silenziose”, sperimentando che solo da uno stato di vera quiete possono sgorgare quelle parole così speciali…”.

I detenuti hanno fatto tesoro di queste comprensioni e dichiarano che la loro vita è cambiata da quando possono contare sulla scrittura, sugli esercizi appresi, sugli incontri con L. Grasso, ma soprattutto su un nuovo modo di percepire se stessi e le loro vite. L. Grasso insiste molto sull’immagine della “prigione” come condizione esistenziale. La reclusione, il senso di costrizione, la limitazione della libertà, sono sì esperienze caratteristiche della vita carceraria vera e propria; ma non solo. Tutti noi dobbiamo fare i conti con le nostre piccole, grandi, reali e virtuali prigioni: tutti noi conosciamo, anche se non ci facciamo mai caso, la sensazione di sentirci dietro le sbarre e di aver perso la chiave. Alle volte si fa presente quando siamo nel traffico, quando siamo costretti in un’attività lavorativa che detestiamo, quando siamo malati e non riusciamo a guarire, quando incappiamo in relazioni tossiche dalle quali non ci sappiamo affrancare. Il punto non è dove ci troviamo, chi siamo, chi siamo stati… il punto è imparare, ovunque siamo, a ritagliarci i nostri spazi di libertà personali e personalizzati. E la scrittura che propone Laura Grasso non è altro che uno strumento di libertà, una boccata d’aria dopo una vita di apnea -non per niente i loro incontri cominciano con e dalla respirazione-. “ Certo l’inconscio ne sa molto di più della coscienza, ma si tratta di una conoscenza di una specie particolare, di una conoscenza nell’eternità, per lo più senza riferimento al “qui” ed ora”, senza riguardo al linguaggio dell’intelletto”. Tuttavia, come questa citazione di Jung ci suggerisce, la libertà che la Scrittura Trasduzionale ci regala è soprattutto conoscitiva: l’inconscio ospita nel suo regno un sapere inimmaginabile; poter comunicare con lui è come recarsi al cospetto di un Grande Saggio che di continuo ci indica nuovi itinerari, nuove strade percorribili, dentro e fuori di noi. Frasi come “ qui la libertà fisica ci è interamente preclusa, ma tutto sommato con la scrittura di Laura possiamo compensare con la libertà mentale, che ci porta molto più lontano” o “ in fondo in carcere non stiamo così male. Forse chi sta fuori sta peggio: noi almeno possiamo scrivere”, le ho sentite pronunciare con le mie orecchie dai detenuti del Regina Coeli.

Da quando ho intrapreso questo percorso di tesi ho accompagnato, appena ho potuto, Grasso nelle sue giornate di lavoro con i detenuti. La mia esperienza è circoscritta al carcere di Regina Coeli e a quello di Bicocca a Catania, nel quale è stato effettuato un seminario intensivo di 4 giorni. Alla luce di queste esperienze mi sento di fare delle considerazioni. Come possiamo immaginare, la struttura carceraria ospita all’interno delle sue mura un elevatissimo concentrato di disperazione, odio, depressione, rabbia, frustrazione, noia. Il carcere è uno di quelli che mi piace definire “non luoghi”, zone di transizione, di passaggio, che non hanno un loro senso intrinseco, se non quello di far giacere le persone in vista di passare ad un “luogo” vero: una sala d’attesa dove nella maggior parte dei casi non si attende niente e nessuno, se non la morte. La vita, che è fatta di prospettive, di un passato che guarda al futuro, di amore e reciprocità, di sogni, lì ha smesso di pulsare. Le vite dei detenuti sono incastonate in un eterno presente in cui non succede niente, in cui regna la stasi più assoluta. Le sbarre letteralizzano la loro perdita totale di libertà e il loro restare bloccati negli errori commessi. I detenuti vi si aggrappano con la speranza che, come per magia, un giorno si dissolvano tra le loro mani e loro possano finalmente ricominciare a vivere una vita nuova. Allorché riescono a gettare un occhio oltre la grata, lì fuori, gli si para davanti una Struttura asettica e impersonale, che non smette di ricordargli che ormai loro non sono nessuno. Nella nostra istituzione carceraria parole come “riabilitazione, rieducazione, ristrutturazione psicologica, cura” sono tanto anacronistiche e inconcepibili, quanto preziose. I detenuti, anche quelli che usciranno, sono tenuti lì con il diktat di “pagare per quello che hanno commesso”; questo mantra che gli ossessiona giorno dopo giorno gli fa dimenticare di essere anche qualcos’altro oltre la loro colpa; a ciò si aggiunge il fatto che il freddo -nel vero senso della parola-, l’alimentazione scarna, il (mal)trattamento delle “guardie”, le sbarre ovunque, gli fanno dimenticare che tutto ciò che gli è rimasto dalla vita è la sofferenza e il patimento. E così camminano, su e giù, per questi corridoi sterminati, vuoti e senza un vero inizio né fine, dove riecheggiano incessantemente le loro grida, inascoltate, di disperazione. Come dice R., la guardia carceraria di Regina Coeli, riferendosi al gruppo di ragazzi che lavora con Grasso: “Questi qui sono gli ultimi ...”.

Per quanto si dica, è difficile, quando si è lì con loro, pensare che queste persone, per quanto siano state senz’altro dei disgraziati, meritino tutto questo; anche nei casi peggiori e nelle situazioni teoricamente “più giuste”. Per quanto mi riguarda, quando entro lì dentro, come si ferma il tempo, così si ferma il giudizio, quello freddo e logico. Il cuore si impone senza appello ed improvvisamente ho la percezione che siamo tutti uguali, tutti esseri umani che lottano ognuno con la propria vita e la propria prigione e, se possibile, lo provano a fare insieme.

Vista la questione da un altro punto di vista, i detenuti hanno molto da insegnarci: il loro “non aver più niente da perdere”, così come il loro disperato bisogno di umanità, in tutti i sensi, li rende estremamente ricettivi e disposti al cambiamento; alle volte sono in grado di vedere molto più lontano di noi, rinchiusi nella cella della nostra quotidianità da presunti uomini liberi e di cogliere quei meravigliosi dettagli della vita, la famosa “bellezza delle cose semplici”, che è dominio del Bambino. Non per niente sono l’utenza senza dubbio più apprezzata dalla scrittrice e con la quale ha ottenuti i risultati più spettacolari. Ciò detto, un lavoro come quello che propone L. Grasso è di grande arricchimento per tutti gli esseri umani e ancor più per i detenuti che con la Libertà hanno un conto in sospeso. Il lettore non si stupirà nel ritrovare la parola “libertà”, appunto, nella maggior parte dei testi scritti dai partecipanti ai corsi.

Possiamo parlare senza dubbio di uno strumento riabilitativo a valenza artistica e psicologica: l’emergere di contenuti inconsci e pensieri ossessivi e tossici dà l’opportunità ai detenuti di liberarsi sicuramente di qualche fardello in quel clima di condivisione, rispetto, pace che L. Grasso ha sempre la premura di creare in fase preliminare. L’effetto di questo lavoro è abbastanza stupefacente. Già dopo i primi esercizi di respirazione i detenuti hanno un aspetto diverso: inizia il Risveglio. Si accorgono gli uni degli altri, sorridono, si abbracciano, si preoccupano vicendevolmente, si consolano, si sostengono nei momenti di difficoltà, ringraziano e, soprattutto, ritornano a sperare; a immaginarsi in un futuro, che esso sia dentro o fuori dal carcere; fanno progetti. Questo è, a mio modo di vedere, il senso pieno della parola riabilitazione: la riattivazione di funzioni che non sono mai state usate o che sono rimaste sopite per molto tempo. Vorrei ricordare che i detenuti con cui L. Grasso lavora hanno per lo più la terza elementare e ciò nonostante riescono a scrivere delle composizioni -non sto esagerando- poetiche. Sono persone presumibilmente devianti, spesso psicopatiche, che ovviamente sono state capaci di crimini, di atrocità, quanto meno di illegalità piuttosto pesanti, uomini di mafia o, nel “migliore dei casi”, innocenti ingiustamente accusati. Vorrei invitare il lettore a immaginarsi un istante una persona di questo tipo a fare Chi-Kung, meditazione, a scrivere poesie, a pronunciare parole d’amore, a “benedire l’acqua”, ecc. Vi assicuro che è proprio così. La più vera verità, quella che commuove! Con L. Grasso succedono queste cose. I Detenuti parlano, così come i loro scritti. Io mi propongo solo come testimone oculare di un fatto.

Risultati

Per concludere propongo la lettura di alcuni dei commenti redatti dai partecipanti ai laboratori. I resoconti sono stati composti da detenuti residenti nelle diverse istituzioni . I testi sono quasi interamente nella loro forma originale: mi sono permessa soltanto di correggere l’ortografia, di inserire la punteggiatura per rendere la lettura più scorrevole. Purtroppo non è stato possibile effettuare una valutazione sistematica dei dati scaturiti da questo lavoro. Tuttavia, i seguenti commenti, per quanto naifs e assolutamente non scientifici, rappresentano un’espressione autentica e spontanea dei singoli soggetti e pertanto un altrettanto interessante spunto di riflessione. I detenuti esprimono all’unisono la loro gratitudine per l’opportunità proposta e manifestano in maniera piuttosto diretta di aver tratto benefici dall’esperienza. Entrando più nei particolari emergono comunque dei pensieri condivisi, quali la possibilità di disporre di spazi di libertà mentali, di rilassarsi, di credere in loro stessi, di essere considerati come “persone normali”, di ricominciare, di essere qualcosa che non si era mai immaginato di essere ecc. In definitiva, per quanto estrapolati da circostanze in un certo senso piuttosto diverse (in termini di tipologia di detenuti, di durata del corso, di contesto ambientale e culturale, di sesso ecc.) mi sembra che da questi testi trapeli un’unica voce di apprezzamento, riconoscenza e bisogno.

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